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Lia De Venere - Memorie private

Ognuno degli oggetti in mezzo ai quali oggi viviamo ha un valore, non solo economico. In realtà, essi sono i tasselli di cui è fatta la nostra storia personale, i puntelli su cui poggia più o meno saldamente la nostra memoria. La loro perdita definitiva in situazioni particolari, come le calamità naturali, può rappresentare un trauma difficilmente sanabile. In altre situazioni, invece, proprio la separazione da alcuni oggetti può innescare in noi una sorta di catarsi liberatoria e la cancellazione di un'esperienza negativa.

Piccoli brani del nostro vissuto, dunque, che ci aiutano a creare una traccia memoriale di noi da ripercorrere alla ricerca del tempo passato o da consegnare a chi verrà dopo di noi. Le cose - ha scritto Jorge Luis Borges nella poesia Le cose (in Elogio dell'ombra, 1969) - "dureranno più in là del nostro oblio; non sapran mai che ce ne siamo andati".

Queste le considerazioni che mi hanno suggerito le opere di Enzo Tempesta riunite in articolata unità nella mostra Memorie private, frutto di una ricerca condotta con assiduità lungo diversi decenni, ma rimasta in gran parte inedita. Affiancando foto d'epoca a immagini dipinte, vecchi manoscritti a disegni, oggetti di uso quotidiano a piccole scatole d'antan, l'artista compie una acuta riflessione sullo scorrere del tempo, su ciò che del passato permane nel presente e che aspira a transitare nel futuro.

Il metronomo modificato che figura nell'opera 1888-1988, segna inequivocabilmente l'ambizione dei suoi lavori a fermare il tempo o almeno a dargli un ritmo diverso, di certo a prolungare sensibilmente emozioni e ricordi, come fa il piccolo datario inserito in American Life #1 (2018), che suggella un piccolo ritratto di famiglia fissato su carta da parati.

Ma è nella mirabile concisione di Rue de la Chapelle (2005), che il tempo si pone come regola fondamentale e insieme univocamente incommensurabile della nostra esistenza, come si intuisce dall'inchiostro dorato con cui l'artista verga la frase "la mesure du temps" e dalla presenza di una riga da disegno che nelle sue intenzioni dovrebbe conferire al tempo anche una dimensione spaziale. Di fronte a quest'opera, per me è stato naturale pensare a L'uomo che misura le nuvole (1998), una toccante scultura che il visionario artista belga Jan Fabre ha dedicato al fratello, grande sognatore, scomparso in giovane età.

A voler riannodare idealmente passato e presente sembra aspirare la serie di ritratti del video intitolato Continuum (2007), una sorta di sintetica autobiografia dell'artista, in cui la sua immagine prende origine da quella del padre e - dopo numerose trasformazioni - ad essa significativamente ritorna.

In piccole scatole di cartone o di legno in cui sono racchiuse immagini e vecchie cartoline galleggiano schegge di vissuti sconosciuti, brandelli di esistenze immaginarie eppure sorprendentemente verosimili, piccoli fuochi in grado di attivare ricordi personali e collettivi. Senza effusioni emozionali gratuite, anzi a volte con una ritrosia espressiva che cela alla vista frasi destinate a vivere solo in una dimensione intima.

Che la parola sia protagonista - mai troppo esuberante - dei lavori di Enzo Tempesta è evidente; che affianchi gli oggetti e le immagini nel dare senso alle opere è una scelta non casuale e ben ponderata. A dimostrazione che la parola non goda di libertà senza condizioni sta del resto il vecchio dizionario scolastico della lingua italiana legato con spago, ceralacca e sigillo di piombo e messo in cornice. "I limiti del mio linguaggio - ha scritto Ludwig Wittgenstein nel Tractatus Logico-Philosophicus (1921, ed.it.1964) - costituiscono i limiti del mio mondo. Tutto ciò che io conosco è ciò per cui ho delle parole".

 

LIA  DE VENERE - Settembre 2018

Catalogo della mostra 

 

Pietro Marino - Memorie private di piccolo mondo

Possono capitare - mi sono capitati - casi di artisti che esordiscono pubblicamente in età avanzata. Ma la prima personale a Bari di Enzo Tempesta (Molfetta 1953) propone una storia un po' diversa. Quella di un giovane che esce da studi completi all'Accademia di Belle Arti negli anni '70, nel 1975 espone anche in una mostra "La Nuova Generazione" nel Palazzo delle Esposizioni a Roma, ma poi si dà alla professione di grafico che ha praticato con successo sino a poco fa. Quindi possiamo parlare di un ritorno, semmai. Che testimonia con discrezione la sua partenza nel sotterraneo della galleria in Bari vecchia: con la gigantografia in scala 1:1 della installazione domestica che presentò a Roma - una sedia, un comodino, una cornice. Non ha risposto anche i mobili veri, poteva sembrare un Kosuth. Peraltro la fotografia è pertinente perché lega  i due motivi che si intrecciano da sempre nei suoi lavori: il sentimento del tempo che trascorre e l'elegia degli affetti familiari e generazionali. Sintetizzati nella stanza accanto in un video 2007 (anch'esso rimasto unico, devo supporre) nel quale trascorrono uno sull'altro e si trasformano a vicenda i volti di lui, del padre e del figlio. 

Anche in questo caso le citazioni vengono facili, vedi Boltansky per esempio. Ma si tratta di un contesto di storia culturale nel quale Tempesta si riconosce sin dai tempi di studio (si diplomò con me in Accademia con una tesi su John Cage e dintorni). Adesione sentimentale che nutre, con diligente umiltà, le mini installazioni oggettuali recenti disposte a parete. Box con scomparti scorrevoli che nascondono o ricompongono visi fotografati o disegnati insieme a vecchie cartoline o lettere manoscritte, un pennino, un righello, un libro scolastico, un astuccio, una scatola, sigilli di ceralacca. Cose così, da piccolo mondo vintage o bidermeier. Oppure metronomi - che non distruggono il tempo come Man Ray, lo misurano su genealogie ed eventi di famiglia. "Memorie private" - come suona il titolo delle personale presentata con cura attenta da Lia De Venere - che tendono a slargarsi in concettosa malinconia. Come nel pannello che nel titolo "Canto dell'ombra" fonde l'accostamento fra un guanto (vero) dal "Canto d'amore" di De Chirico e il libro di Borges "Elogio dell'ombra". Così la dimensione della parola scritta - come segnala la curatrice - tende a delimitare (anche con un omaggio a Wittgenstein) la persistenza degli oggetti, a trascolorarli. Sino all'evaporazione. Come nella scatolina di pastiglie aromatiche nella quale l'artista posò nel 1976 una minimale foto di famiglia, sognando che ancora oggi se ne spanda l'effluvio. 

PIETRO MARINO - La Gazzetta del Mezzogiorno 18/10/2018

Antonella Marino - Memorie private, Museo Nuova Era, Bari

 

Per quarant’anni Enzo Tempesta ha lavorato con successo a Bari come grafico. Per la sua second life ha deciso invece di uscire allo scoperto come artista. Non si tratta di una passione nuova, visto che la sua formazione è avvenuta negli anni Settanta all’ Accademia di Belle Arti del capoluogo barese. Ai tempi aveva già esordito un ambito artistico anche a livello nazionale: una sua opera era stata selezionata nel ’75 per la X Quadriennale a Roma.

Pur avendo scelto poi di dedicarsi a tempo pieno all’attività di graphic designer Tempesta non ha mai smesso di produrre lavori e fare ricerca. Così la personale curata da Lia De Venere alla galleria Museo Nuova Era di Bari segna un ritorno che può essere considerato anche un nuovo inizio. Idealmente il percorso si potrebbe far partire dalla gigantografia al piano inferiore. Raffigura un scorcio domestico d’antan, una sedia in legno, un comodino, una vecchia cornice ovale sulla parete in alto che racchiude uno sbiadito ritratto femminile da album di famiglia. Si tratta del remake fotografico di “Ambiente”, l’installazione oggettuale esposta da giovane nella rassegna romana, dove la matrice concettuale (versione calda e narrativa delle tautologie di Kosuth) si combinava già ad un’elegia della memoria. E’ proprio questa la cifra peculiare dell’autore, che attinge appunto a “Memorie private”, come suggerisce il titolo di questa mostra che documenta diverse fasi creative ancora inedite. Passaggi generazionali si fondono ad esempio nel video in cui il volto del padre si sovrappone in lente dissolvenze incrociate con il suo e poi con quello del figlio, evidenziandone le somiglianze. Così come nei delicati dipinti a soggetto familiare, nei reperti, cartoline, buste o manoscritti, nelle foto d’epoca e in piccoli oggetti composti in assemblaggi materici al piano superiore. Talvolta quali piccoli scrigni che incapsulano enigmatici frammenti, offrendoli a nuova significazione. Sono tracce di un vissuto che si dà come “continuum”, malinconica ma lucida esperienza esistenziale a partire da cassetti di ricordi, veri o mentali. Sintesi, come annota la curatrice, di una “riflessione sullo scorrere del tempo, su ciò che dal passato permane nel presente e aspira a transitare nel futuro”.

ANTONELLA MARINO - Segnonline 7/11/2018

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